Equitazione “in montagna” ed equitazione di montagna o “alpina”

Quando si fa riferimento alla “campagna”- con riguardo alla pratica dell’equitazione – è superfluo precisare che con tale termine non si indicano soltanto le aree pianeggianti di poco rilevate sopra il livello del mare, ma più in generale i luoghi aperti, dal vasto orizzonte, lontani o comunque esterni ai centri abitati e, quindi, nella nostra Italia intelaiata sulla catena alpina e sulla dorsale appenninica, anche le montagne.

Così, chi monta a cavallo a quote un po’ più elevate di quelle collinari, semplicemente perché lì abita o lì frequenta un circolo ippico, si trova, per forza di cose, a praticare l’equitazione “in montagna”.

Si imbatterà quindi in salite e discese, in terreni di diversa conformazione, solidità ed impermeabilità, in spazi boscosi a volte difficilmente penetrabili, in sentieri a mezza costa o di crinale e sarà conseguentemente costretto ad uniformare il modo di stare in sella e le andature del proprio cavallo a tali diverse situazioni.

Tendenzialmente l’approccio alla montagna di un cavaliere “di campagna” come me è quello di scegliere i percorsi meno impervi per percorrere le distanze programmate con un minor affaticamento del cavallo. Anche la bardatura e l’affardellamento del cavaliere di campagna sono pensati con questa medesima logica, talchè nei lunghi viaggi si opterà per l’ausilio di un mezzo d’appoggio per trasportare i bagagli a preferenza di un pesante affardellamento della cavalcatura.

Diversa invece è la “filosofia” di chi pratica l’equitazione di montagna o alpina perché – l’identico rispetto per il cavallo – lo porta in qualche misura a ricercare le asperità, pronto a percorrere anche gran parte della tratta giornaliera con il cavallo a mano camminando avanti a lui.

In genere il cavaliere di montagna è, insieme, un appassionato delle vette e un amante dei cavalli che cerca di spostare l’asticella del proprio impegno equestre a vantaggio delle prime.

Mi piace pensare che l’antesignana di chi oggi pratica l’equitazione alpina, sia stata la viaggiatrice inglese Isabella Lucy Bird (1831- 1904) che nel 1873 percorse in sella alla cavalla Birdie centinaia di miglia sulle Montagne Rocciose fino a quote importanti, comprese quelle sul Long’s Peak che era stato esplorato per la prima volta una cinquantina di anni prima da S.H. Long.

Tutta la “filosofia” del cavaliere di montagna, che pratica uno sport quasi estremo, è contenuto in nuce nell’esperienza della sopra citata viaggiatrice inglese, anche nota come la “Lady del West”, dal titolo di un suo libro ed è emblematicamente racchiusa nella esternazione di un suo momento di stanchezza: << Non so davvero come andare avanti, non c’è un tavolo, un letto, non una vasca, né asciugamani, né bocchieri (…) la vita è stata ridotta ai minimi termini>>.

Stava in sella come gli uomini, cosa all’epoca ritenuta poco appropriata per una gentildonna britannica, vestita con cappello a tesa larga, giacca stretta in vita, gonna lunga a coprire i pantaloni alla turca sopra gli stivali. Un’altra foto della Bird su di un cavallo molto rustico con un’imboccatura dalle leve assai lunghe, la mostra in abiti più tradizionali in un contesto, sempre innevato, che non sembra appartenere all’ambiente americano, ma piuttosto a quello mediorientale, cosa tutt’altro che improbabile visto che, oltre ad aver visitato a cavallo l’isola giapponese di Hokkaido, viaggiò anche nell’Iran settentrionale, nel Kurdistan e in Turchia, solo per citare le mete meno esotiche.

La bardatura della cavalla usata nel Colorado si scorge appena nella raffigurazione (in vero un po’ di maniera) che ho potuto visionare (ve ne è un’altra, ma della cui autenticità dubito perché ritrae una signora che monta “all’amazzone” e quindi difficilmente poteva trattarsi della Bird): della sella si sgorge la “paletta” molto rilevata per dare comodità alla seduta, ma che certamente non era l’ideale per alleggerire il posteriore del cavallo lungo le salite secondo le regole che Federico Caprilli, praticamente coevo della Bird, insegnò a tutto il mondo, ma che erano ancora ignote negli Stati Uniti quando li visitò la nostra viaggiatrice.

Come sopra anticipato, questo problema, nell’equitazione di montagna, è risolto alla radice perché coessenziale ad essa è l’esigenza (prima ancora che l’abitudine) di percorrere lunghissimi tratti a piedi affrontando così (se in più, in fila indiana) i passaggi pericolosi, le salite e le discese impegnative, oltre che per far rifiatare i cavalli come facciamo anche noi “in campagna”.

Così sono state codificate le regole del procedere con il cavallo a mano prescrivendosi, ad esempio, che il conducente non forzi né ostacoli la “progressione”, che gli animali mettano i ferri nelle impronte del conducente, che le distanze fra i partecipanti, nonché fra i singoli cavalli e il loro conducente, vengano rispettate ancor più rigorosamente che in altre forme di equitazione e che, avanzando, le cavalcature non affianchino o, peggio, non cerchino di superare chi le guida.

Intuitive sono le rilevantissime difficoltà di un trekking a cavallo in siffatti contesti ambientali, che vanno dall’allenamento, alla ricognizione del percorso, all’affardellamento, all’approvviggionamento del cibo per i cavalli, alla scelta del tipo di alimentazione per gli stessi in funzione del dispendio energetico, all’organizzazione delle tappe in funzione dei punti sosta se e dove reperibili. Per tacere poi della percorrenza dell’itinerario, in sé e per sé considerata .

L’innevamento o la presenza di tratti fangosi o comunque scivolosi pone anche il problema della ferratura che a seconda che si tratti di fango, neve o ghiaccio potrà far optare per ferri rigati (che aumentano l’aderenza) o per speciali solette antineve o per le punte al widia che andranno tolte al termine dell’impiego sui terreni ghiacciati.

In Appennino, d’inverno, si “scalzano” regolarmente i cavalli, così da evitare la formazione del “taccone” di neve sotto i ferri che, altrimenti, avviene inesorabilmente alle nostre temperature non troppo basse e con la neve bagnata, visto che la vecchia usanza di ungere abbondantemente ferri e suola non serve granché.

Tutte queste problematiche tecniche, in ambito Engea, possono essere approfondite ben di più che attraverso questa piccola digressione “giornalistica”, nei corsi della Scuola Nazionale di Equitazione Alpina (SNEA) e nel contesto delle attività del centro “La Canunia” di Lurisia Terme (CN).

Questa associazione sportiva, a far tempo dal 2002 quando organizzò il 1° trekking transfrontaliero tra Italia e Francia, ne ha effettuati molti altri sul Monviso, sul Monte Rosa, lungo le Vie Occitane , eguagliando le altre più importanti realtà italiane di equitazione alpina come Alpitrek.

Il fascino di utilizzare una cavalcatura in percorsi montuosi, cavalcatura che in quelli più impegnativi potrebbe anche essere il mulo e in quelli più agevoli, per il trasporto del bagaglio, l’asino, consiste nella sua “primordialità”, nell’evocazione del rapporto ancestrale uomo- equide – natura, resa plastica dall’immagine di una fila di persone e di animali someggiati che si inerpicano senza emettere suono ed ai quali si adatta alla perfezione l’aforisma: << I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi>>.

Quanto alle razze di cavalli adatti all’equitazione di montagna , avuta presente la tripartizione su base morfologica in brachimorfi, mesomorfi e dolicomorfi e premesso, ma il discorso porterebbe lontano, che l’ibridismo dell’allevamento equino rende l’individuazione di razze specifiche non decisiva, la maggior predisposizione all’impiego in montagna non può essere appannaggio dei cavalli dolicomorfi, ma piuttosto – nell’ambito delle altre due “famiglie” – dei soggetti di altezza non troppo elevata, saggi di testa e sicuri di piede.

                                                                                                                           Mario Renzulli

                                                                             Guida equestre ambientale